Maurizio Minghella è un serial killer?

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Il dato storico

Maurizio MINGHELLA nasce a Genova il 16 luglio 1958: piastrellista e pugile dilettante (detto “Il Travoltino della Val Polcevera”), viene arrestato, per la prima volta, nel 1978 e successivamente condannato alla pena dell’ergastolo (Corte d'Assise di Genova, sentenza del 3 aprile 1981) per l’omicidio di cinque donne, da scontare presso il carcere di massima sicurezza di Porto Azzurro.

Nel 1995, chiede ed ottiene il trasferimento nel carcere di Torino e, in regime di semilibertà, inizia a lavorare in una cooperativa del Gruppo Abele.

Il 7 marzo del 2001 viene nuovamente arrestato per aver picchiato e rapinato una prostituta, ma, in breve, le indagini dell’autorità giudiziaria si allargano all’omicidio di altre quattro donne, una delle quali risulta, ancora oggi, non identificata.

Nel 2002 il MINGHELLA viene tratto a giudizio nanti la Corte d’Assise di Torino per rispondere di 4 omicidi, 15 rapine e altrettante aggressioni nei confronti di donne.

L’imputato non ha mai partecipato alle udienze, è stato difeso da un legale d’ufficio e, nelle more del processo, in data 2 gennaio 2003, anche se solo per poche ore,  è riuscito ad evadere (dall’ospedale degli infermi di Biella).

Il 4 aprile del 2003 la Corte d’Assise di Torino lo ha condannato a 2 ergastoli per 3 dei 4 omicidi contestati (e più precisamente per l’omicidio di Cosima Guido,  Fatima H'Didou e Florentina Motoc; per quello della donna sconosciuta vi è stata pronuncia assolutoria) oltre ad altri 135 anni di carcere per le altre contestazioni: nell’udienza del 28 febbraio il P.M. Roberto Sparagna aveva invocato l’applicazione di un cumulo di condanne per complessivi tre ergastoli; il successivo 13 marzo, le parti civili avevano chiesto l’equivalente di quasi tre miliardi di lire a titolo di risarcimento; la difesa (avvocato Gian Mario Ramondini), nell’udienza del 14 marzo, aveva, invece, richiesto l’assoluzione da tutti i reati contestati, per una pretesa incapacità di intendere e di volere del proprio assistito.

Avverso tale sentenza è stata proposta impugnazione e, in data 30.9.2004, la Corte d’Assise d’Appello di Torino ha parzialmente riformato la pronuncia di primo grado. Infine, la Suprema Corte di Cassazione, in data 8.6.2005, ha respinto l’impugnazione del MINGHELLA con conferma della sentenza di secondo grado.

Gli aspetti giuridici

La vicenda, al di là delle ricostruzioni fattuali che le tre sentenze illustrano con precisione e riscontri, fornisce vari spunti di riflessione di interesse giuridico che verranno, brevemente, tratteggiati.

A) La disciplina della continuazione

La Corte d’Appello di Torino, come evidenziato dalla Pubblica Accusa e dalle costituite parti civili, non ha riconosciuto la continuazione dei reati contestati al MINGHELLA e ha irrogato una pena di 2 ergastoli e 135 anni di carcere: il Giudice di prima istanza, confermato nei successivi gradi di giudizio, non ha riconosciuto, nelle condotte del prevenuto, un comportamento seriale e frutto di un unico disegno criminoso, bensì, un’assoluta occasionalità delle azioni criminose (una volta la rapina, un’altra volta la violenza sessuale e un’altra ancora l’omicidio). Contrariamente alle definizioni dei media, il MINGHELLA, da un punto di vista processuale, non può, dunque, ritenersi un serial killer.

B) La prova scientifica

Il processo MINGHELLA, grazie all’attività della Pubblica Accusa, si è imperniato sull’utilizzo della prova scientifica collegata ad un coordinamento logico deduttivo degli investigatori, circostanza, quest’ultima, spesso carente nelle vicende criminali, risalenti ed attuali, della cronaca italiana. In particolare, grazie a varie branche della più moderna medicina legale, la Pubblica Accusa, in relazione alle contestazioni di omicidio, è riuscita a crearsi, nel rispetto del codice di procedura, una sorta di “banca dati” genetica (nel caso concreto, dell’imputato) da comparare ad altre “scene dei crimini”, rimasti, in allora, insoluti.

Lo studio del DNA, pur essendo stato ritenuto punto cardine, è stato “incrociato” con analisi logiche, in relazione alla frequenza dei delitti, alla presenza, in zona, di soggetti già pregiudicati per reati sessuali, a fattori temporali ed elementi ricorrenti sulla scena dei crimini. In alcuni casi la prova scientifica del processo ha anticipato, di diversi anni, le ormai note serie televisive delle indagini scientifiche della polizia americana: in particolare, nel caso di un omicidio, si è ricorsi allo studio della composizione del terreno ove è stato rinvenuto il cadavere che, stante la sua particolare origine geologica, è stato ritenuto compatibile con alcuni frammenti dello stesso terreno rinvenuti sugli indumenti dell’imputato. Questo elemento, unitamente, all’analisi del traffico cellulare tra l’utenza del MINGHELLA e quello della sua convivente, agganciato ad una cella limitrofa al luogo dell’omicidio, ha fondato la condanna dell’imputato.

C) Capacità di intendere e volere

Un altro aspetto fondamentale del processo MINGHELLA è rappresentato dall’analisi della capacità di intendere e volere dell’imputato. Invero, tale analisi è stata svolta nella fase delle indagini preliminari con l’esito di una dichiarazione della sussistenza della capacità. Nella fase processuale, la difesa ha rinnovato la richiesta all’inizio del dibattimento, seppur, come detto, il MINGHELLA non ha partecipato ad alcuna udienza dibattimentale: l’istanza è stata respinta sia dal Giudice di 1^ grado che da quello dell’impugnazione.

In particolare la Corte d’Appello d’ Assise, nella motivazione della suddetta reiezione, ha anticipato l’orientamento della Suprema Corte che, qualche tempo dopo (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza 25 gennaio 2005 - 8 marzo 2005 n. 9163 recentemente confermata da Cass. Pen. sez. I, sentenza 03/12-02-2010, n. 5771), ha precisato il concetto di malattia, sancendo che “un disturbo psichico possa essere riconducibile ad una malattia mentale, in quanto sia nosograficamente inquadrato” e, dunque, che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato debba sussistere un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo.

La Sezione I Penale della Suprema Corte, nella sentenza nei confronti di MINGHELLA, ha ribadito la decisione del Giudice di 2^ grado e quello di cui alla citata sentenza.

D) Risarcimento parti civili

La vicenda in esame, infine, rappresenta uno dei primi casi di estrema considerazione e valutazione della cd. persona offesa, parte accessoria del processo penale.

Il Giudice di primo grado, confermato sul punto nei successivi gradi, ha riconosciuto e liquidato il danno alle parti civili con la provvisoria esecutorietà di tale statuizione: in tal modo, si è evitato alle parti civili, in via teorica,  di dover attendere quantomeno l’esito del giudizio di 2^ grado oppure il passaggio in “cosa giudicata” della sentenza per poter agire nel cd. “separato giudizio civile”.

La Corte d’Assise, come sollecitata dalle parti civili, ha ritenuto, infatti, di essere in possesso di tutti gli elementi (in particolare in relazione al cd. danno morale) per valutare, apprezzare e liquidare le somme risarcitorie a favore delle persone offese o dei loro eredi.
 

Sentenza della Corte di Cassazione, Sezione I Penale
dell' 8.6 - 23.9.2005, n. 705, massima n. 34224


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE PRIMA SEZIONE CIVILE
composta dai sigg.
dr. Mario SOSSI presidente
dr. Edoardo FAZZIOLI consigliere
dr. Paolo BARDOVAGNI consigliere
dr. Emilio GIRONI consigliere
dr. Livio PEPINO consigliere             

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da
1) M. M., n. il ..omissis..                                     
contro la sentenza 30 settembre 2004
della CORTE DI ASSISE D'APPELLO di TORINO
visti gli atti,
sentita la relazione svolta dal consigliere LIVIO PEPINO,
sentito il Procuratore generale dr. GIUSEPPE FEBBRARO che ha chiesto
il rigetto del ricorso
sentiti gli avvocati:               
 DOMENICO OBERDA per il ricorrente
- PAOLO CHICCO per la parte civile B. F. e, in rappresentanza
dell'avv. COSTANTINO MACRI, per la parte civile G. A. (marito di G.C.);                                       
- SUSANNA SPAFFORD, in rappresentanza dell'avv. VINCENZO NAPOLI, per la parte civile H. D.

Osserva
1. Tra la primavera del 1997 e il febbraio 2001 si verificarono in Torino e nelle immediate vicinanze alcuni omicidi e numerose rapine accompagnate da violenza sessuale in danno di prostitute. Dalle dichiarazioni di alcune parti offese emersero evidenti analogie: su tutte, gli evidenti disturbi nella sfera sessuale dell'agente e l'uso da parte sua, in occasione della commissione dei reati di un ciclomotore. Nulla di più si accertò nell'immediato.

Il 7 marzo 2001, nel corso delle indagini conseguenti a una rapina commessa il 7 settembre 2000 in danno di K. B., venne sottoposto a fermo di polizia giudiziaria M. M., riconosciuto dalla K. come autore dell'aggressione (dopo che gli inquirenti erano a lui arrivati indagando su alcuni numeri della targa del ciclomotore con cui viaggiava il rapinatore, rilevati dalla parte offesa). Le modalità della rapina, l'uso del ciclomotore e le caratteristiche personali del M. (già condannato all'ergastolo dalla Corte d'assise di Genova, il 2 aprile 1981, per gli omicidi di tre giovani donne e, dalla fine del 1995, in semilibertà) concentrarono su di lui i sospetti per molti altri episodi analoghi e determinarono la riapertura delle relative indagini.

All'esito di queste il M. è stato rinviato a giudizio per numerose ipotesi di omicidio, rapina ed altro.

2. Con sentenza 4 aprile 2003 la Corte di assise di Torino ha dichiarato il M. colpevole:

a1) degli omicidi (connessi con violenza sessuale o, in ogni caso, intervenuti all'esito di rapporti sessuali) di H. F. (commesso in Caselette, il 24 maggio 1997), G. C. (commesso in Torino, il 30 gennaio 1999) e M. F. (commesso in Collegno, il 9 febbraio 2001);

a2) delle violenze sessuali e rapine in danno di B. F. (27 maggio 1997), S. M. V. (7 giugno 1998), C. A. M. (4 luglio 1998 e 18 luglio 1998), H. D. (13 luglio 1998), D. A. (25 luglio 1998), Q. B. E. (16 agosto 1998), G. E. (26 settembre 1998), K. A. (maggio 1999) e S. A. (tra il settembre e il novembre 1999);

a3) delle rapine in danno di D. C. A. (18 luglio 1998), N. C. M. (estate 1999) e K. K. (14 novembre 2000); a4) della rapina in danno di G. G. (29 novembre 2000), commessa per strada, con strappo della borsa e trascinamento della parte offesa;

a5) del reato di cui all'art. 73 legge stupefacenti (commesso dal giugno 1996 al febbraio 1998), per avere fornito, a titolo gratuito, piccole quantità di eroina all'allora convivente F. M.. Alla dichiarazione di responsabilità è seguita l'applicazione della pena dell'ergastolo per gli omicidi di H. F. e G. C., dell'ergastolo con dieci mesi di isolamento diurno per tutti gli altri delitti e della multa di 15.493 euro.
L'affermazione di responsabilità è stata confermata dalla Corte di assise d'appello di Torino che, con sentenza 30 settembre 2004, ritenuto applicabile l'art. 72, secondo comma, del codice penale, ha rettificato la pena in quella dell'ergastolo con isolamento diurno per dieci mesi (dichiarando in essa assorbite le pene temporanee inflitte per gli altri reati ed eliminando l'ulteriore ergastolo) e confermato, nel resto, la pronuncia di primo grado.

I giudici di merito hanno ritenuto la responsabilità del M.:

b1) quanto all'omicidio di H. F., per l'identità di carattere (accertata mediante perizia medico legale) tra il profilo genetico dell'imputato e quello, ricavato nel corso delle indagini di polizia giudiziaria, del donatore dello sperma rinvenuto nel profilattico trovato sul corpo della vittima;

b2) quanto all'omicidio di G. C., in forza della coincidenza tra il profilo genetico del M. e quello del liquido spermatico, e del materiale biologico rinvenuti su pezzi di scottex trovati nel cestino accanto al letto della G. nonché sulle scale di accesso all'appartamento della stessa;

b3) quanto all'omicidio di M. F. e alla parziale distruzione del suo cadavere, sulla base: a) del rinvenimento a casa del M. di un telefono cellulare già della M. (su cui risultano una chiamata effettuata a da tale L. alle ore 16.11 del 9 febbraio ed una effettuata, alle ore 21.02 dello stesso giorno, da F. M., convivente dell'imputato);

b) dell'affermazione della F. di avere avuto tale telefono cellulare in regalo dal M. proprio nei primi giorni di febbraio;

g) della presenza di quest'ultimo, alle 16.50 del 9 febbraio, nella zona dell'omicidio (come risulta dai tabulati del suo cellulare, comprensivi di una telefonata alla F. in partenza dalla zona di Collegno); d) della compatibilità dei reperti minerali rinvenuti dopo il fermo, sulle scarpe del M. con la mineralogia e la petrografia del luogo di rinvenimento del cadavere della M.;

b4) quanto alle rapine e alle violenze sessuali, in base alle ricognizioni delle persone offese, spesso avvalorate da significativi elementi di riscontro (salvo che per quelle in danno di G. E., in ordine alle quali la prova di responsabilità è stata ravvisata nella corrispondenza tra il profilo genetico del M. e quello del liquido spermatico rinvenuto sulla gonna della persona offesa);

b5) quanto alla rapina in danno di G. G. in forza del rinvenimento nell'abitazione del M., in sede di perquisizione successiva al fermo, del telefono cellulare contenuto nella borsa della G. e degli accertamenti sullo stesso, dai quali è risultata, due giorni dopo la sottrazione (e dunque prima della data in cui l'imputato l'avrebbe acquistato al mercato dell'usato di Porta Palazzo), una chiamata in uscita diretta a F. M., convivente del M.;

b6) quanto al reato concernente gli stupefacenti, per le circostanziate dichiarazioni accusatorie della F., nonché dei testi C. S., S. L., F. M. e T. S..
I giudici di merito hanno, inoltre, ritenuto la capacità di intendere e di volere dell'imputato osservando che:

c1) la disposta perizia psichiatrica collegiale ha rilevato, nel M., "un ritardo mentale beve e il limite inferiore dell'intelligenza media" escludendo, nel contempo, "segni psicopatologici clinicamente significativi" e, in particolare, "turbe della volizione, dissociative o distimiche", "incapacità di resistere agli impulsi aggressivi", "parafilia" o, comunque, "patologie psicotiche";

c2) per contro, il M. è risultato portatore di "note disarmoniche di personalità, inquadrate in vari disturbi", non tali, peraltro, da "dar luogo a un quadro di immediata e sicura rilevanza clinica, "non fosse altro che per la buona conservazione di alcune capacità di rapportarsi al reale in modo sufficientemente libero ed autonomo"" e questo quadro trova conferma anche nella diversa dinamica dei fatti commessi dall'imputato (sempre collegati con la sfera sessuale, ma talora fermatisi alla rapina, talaltra, sfociati in violenze sessuali, talaltra ancora giunti sino all'omicidio), con conseguente esclusione dei caratteri tipici dell'omicida seriale (o serial killer);

c3) l'assenza di "una patologia cronica tanto grave da integrare uno stato permanente a causa della severità e della costanza della condizione di infermità" esclude i presupposti medico legali del vizio totale o parziale di niente;

c4) in ogni caso, anche a voler assumere la "nozione estensiva" di incapacità di intendere e volere, non ne esistono nel caso specifico le evidenze, posto che, pur in presenza di significativi disturbi della personalità "l'autonomia, funzionale dell'Io è apparsa integra, senza alterazioni significative delle sue funzioni costitutive", e ciò con riferimento sia ai profili cognitivi che a quelli organizzativi, previsionali, decisionali ed esecutivi.

2. Contro la sentenza della Corte d'assise d'appello ha proposto ricorso il M.. Si deduce, in particolare, nei motivi:

d1) violazione del diritto di difesa essendo il M. detenuto, all'atto del dibattimento di appello, in Napoli e non essendo stato trasferito in un istituto prossimo a Torino, con conseguente impossibilità di fatto di colloqui con il difensore (nominato di ufficio, stante il perdurante disinteresse dell'imputato al processo);

d2) illegittimità dell'acquisizione del consenso del M. al prelievo, a fini comparativi, di un campione di sangue e saliva, siccome avvenuta, in violazione dell'art. 191 del codice di rito, senza avviso che lo stesso sarebbe stato utilizzato non solo nelle indagini per l'omicidio di M. F., ma anche con riferimento ad altre posizioni (in particolare quelle H., G. e G.);
d3) illogicità della motivazione in punto mancato accoglimento dell'istanza difensiva tesa ad ottenere l'effettuazione, nel giudizio d'appello, di perizia medico legale sull'esatta epoca della morte di M. F., individuata nel 9 febbraio 2001 sulla base di elementi testimoniali e logici contrastanti con i rilievi del medico legale circa le condizioni di conservazione del cadavere (rinvenuto il 17 febbraio 2001);

d4) violazione di legge e vizi della motivazione concernente l'omicidio di H. F. in quanto: a) i risultati della perizia medico legale, secondo cui v'è "completa identità" tra i caratteri genetici del M. e quelli del donatore dello sperma presente nel profilattico rinvenuto sul corpo della vittima sono irrimediabilmente viziati dai plurimi errori in cui è incorso l'ufficiale di polizia giudiziaria che ha provveduto all'isolamento del profilo maschile presente nella sostanza contenuta nel profilattico (inizialmente ritenuto compatibile con quello di altra persona), che impongono di considerare la relazione conclusiva alla stregua di una falsa perizia ai sensi dell'art. 373 del codice penale; b) manca una spiegazione convincente delle modalità con cui il M. sia riuscito a convincere la H. a seguirlo sul ciclomotore, atteso che la stessa non conosceva che poche parole di italiano;

d5) illogicità della motivazione in relazione all'omicidio di G. C. in quanto, da un lato, l'impossibilità di estrarre dai reperti in sequestro profili genetici significativi (attestata nell'immediatezza dal dr. B.) vizia le successive rilevazioni dei periti e, dall'altro, la presenza altresì di tracce di un profilo genetico appartenente ad altra persona di sesso maschile rende dubbia l'attribuzione dell'omicidio al M.;

d6) illogicità della motivazione con riferimento all'omicidio di M. F. non avendo la corte di merito tenuto conto di elementi idonei a porre in dubbio l'attribuzione del fatto al M., come, da un lato, l'estrema difficoltà di raggiungere il luogo dell'omicidio con il ciclomotore e di prelevare del carburante per bruciare il corpo della vittima e, dall'altro, l'inverosimiglianza del fatto che l'omicida si sia intrattenuto in loco a conversare telefonicamente con la convivente per oltre un minuto;

d7) illogicità della motivazione in punto responsabilità per le rapine e le violenze sessuali, ritenuta sulla base di ricognizioni personali effettuate a rilevante distanza di tempo e dopo che le parti offese avevano avuto modo di vedere sui giornali o in televisione, e qualche volta addirittura de visu, il M.;

d8) violazione di legge e illogicità della motivazione in punto ritenuta sussistenza della capacità di intendere e di volere del M., avendo la corte di merito omesso di considerarne adeguatamente la personalità sadica e necromane, caratterizzata cioè da "un disturbo della personalità che, se non può essere qualificato come malattia, è comunque in grado di escluderne la capacità di intendere e di volere";

d9) illogicità della motivazione in ordine all'esclusione del vincolo della continuazione tra i delitti (pur insita nel carattere seriale degli stessi), effettuata sulla base di un elemento incongruo come quello secondo cui l'imputato avrebbe agito in tutti i casi con dolo d'impeto.

Il Procuratore generale ha concluso come in epigrafe.

2. Il primo motivo di ricorso è infondato. La detenzione in istituto prossimo al luogo di celebrazione del dibattimento non è, nel nostro sistema, un diritto dell'imputato e neppure una situazione giuridicamente apprezzabile ai fini della regolarità del giudizio (come dimostra, tra l'altro, la possibilità dell'esame dell'imputato a distanza prevista dall'art. 147 bis delle norme di attuazione del codice processuale). Si aggiunga che nessuna richiesta in tal senso risulta formulata, nel caso di specie, dall'imputato (il quale ha rinunciato a comparire) e che, ad escludere la lesione del diritto di difesa dedotta dal ricorrente, concorre la circostanza che, in linea di principio, le spese di spostamento del difensore per conferire con l'assistito sono, in caso di ammissione al patrocinio a carico dello Stato, rimborsabili [cfr. Cass., sez. 4, 20 dicembre 2002 - 10 marzo 2003, Conte, riv. n. 224013, secondo cui "al difensore dell'imputato ammesso al gratuito patrocinio può essere riconosciuto il rimborso delle spese di viaggio e soggiorno all'estero, ove questi siano stati determinati dall'esigenza, di dare esecuzione a un incombente difensivo (nella specie colloquio con l'assistito, ristretto in carcere olandese in attesa di estradizione verso l'Italia) ritenuto necessario e salva la valutazione, da parte del giudice, della legittimità della condotta del difensore sotto il profilo della imprescindibilità, e congruità dell'esercizio di quell'incombente"].

Egualmente infondato è il secondo motivo. In base all'analitica ricostruzione della corte di assise d'appello, non censurabile in sede di legittimità trattandosi di questione di fatto, il 19 marzo 2001, allorché avvenne il prelievo del campione di sangue e saliva autorizzato dal M., non solo non era ancora stata disposta la riapertura delle indagini nei procedimenti per gli omicidi di H. F. e G. C., e per la rapina in danno di G. E., ma non erano neppure emersi elementi tali da giustificare tale riapertura. La conseguenza è ovvia: nessuna violazione di un principio implicito di "lealtà processuale", con effetti di invalidazione degli atti successivi, è ravvisabile nella mancata informativa al M. della circostanza che i campioni prelevati sarebbero stati utilizzati anche per comparazioni in altri procedimenti (in allora del tutto ipotetici).

Con il terzo motivo il ricorrente si duole che la corte di merito non abbia disposto la l'innovazione del dibattimento per procedere a perizia medico legale finalizzata a stabilire l'esatta epoca della morte di M. F.. La reiezione della relativa istanza non è, peraltro, censurabile: il giudice di merito l'ha motivata con argomenti logicamente inattaccabili (la data e, addirittura, l'ora della morte della M. sono ricostruibili in modo certo sulla base dei dati testimoniali e oggettivi in atti, con conseguente superfluità della perizia) e "la rinnovazione dell'istituzione dibattimentale di cui all'art. 603 codice di procedura penale è istituto di carattere eccezionale che presuppone l'impossibilità di decidere allo stato degli atti" (Cass., sez. 6, 2 dicembre 2002 - 8 gennaio 2003, procuratore generale in procedimento Raviolo, riv. n. 222977).

Le censure formulate nel quarto motivo di ricorso, già contenute nell'atto di appello, hanno trovato specifica confutazione da parte della corte di merito secondo la quale:

e1) le erronee valutazioni iniziali del capitano P. sono state rettificate già in un successivo elaborato (di gran lunga precedente all'apertura delle indagini nei confronti del M.), sono spiegabili (secondo gli stessi periti) con il pessimo stato di conservazione delle biologiche presenti sugli abiti utilizzati per la prima comparazione, non si riflettono in ogni caso sulla identificazione del profilo genetico del donatore dello sperma rinvenuto nel profilattico in sequestro;

e2) le risultanze testimoniali acquisite dimostrano che la ridotta conoscenza della lingua italiana da parte della H. non le impediva una normale vita di relazione e l'esercizio della prostituzione anche con clienti italiani. Si tratta, all'evidenza, di argomentazioni congrue e razionali non censurabili per tale ragione, in sede di legittimità.
Anche le doglianze di cui al quinto motivo riproducono terrà già proposti in sede di appello e affrontati in sentenza, con motivazione non suscettibile di riesame, siccome puntuale e non illogica, fondata, da un lato, sul rilievo che il perfezionamento delle tecniche di accertamento e la più accurata indagine dei periti spiegano in modo esauriente la maggior precisione dei risultati ottenuti nella fase processuale rispetto a quelli emersi nelle prime indagini di polizia e, dall'altro, sulla considerazione che la presenza in loco di tracce biologiche di altra persona di sesso maschile, riconducibile alla pluralità di rapporti sessuali avuti dal G. nel proprio appartamento, non attenua l'efficacia probatoria delle cospicue tracce del M. (le sole coeve, secondo la ricostruzione peritale, a quelle lasciate dal sangue della vittima).

Quanto al sesto motivo, gli elementi indicati dalla difesa (inverosimiglianza che l'assassino telefoni dal luogo del delitto e difficoltà di accesso con un ciclomotore nella zona del fatto) consistono in realtà, anche a prescindere da ogni rilievo di merito, in mere e controvertibili considerazioni logiche, univocamente soccombenti a fronte degli elementi oggettivi a carico dell'imputato (non altrimenti spiegabili, secondo la motivazione dei giudici di merito, che con la commissione dell'omicidio).
Il settimo motivo è inammissibile. Per giurisprudenza consolidata, infatti, "il mancato rispetto delle prescrizioni di cui agli artt. 213 e 214 cod. proc. pen., non previste a pena di nullità, non vizia i risultati della ricognizione personale, ne possono essere utilizzati per la formazione del convincimento del giudice, sulla base del suo prudente apprezzamento" (Cass., sez. 1, 15 giugno - 7 settembre 1994, Sannino, riv. n. 199257) e, in ogni caso, "anche i riconoscimenti distinti dalle ricognizioni vere e proprie (come il riconoscimento operato in udienza dalla persona offesa, nel corso dell'esame testimoniale, nei confronti dell'imputato presente costituendo) sono validi e giuridicamente utilizzabili non esistendo nel nostro sistema alcun "principio di tassatività del mezzo probatorio", in forza del quale, posta resistenza di uno specifico mezzo costituito dalla ricognizione formale, gli effetti propri di quest'ultima non potrebbero essere perseguiti mediante altro strumento come quello costituito dall'esame testimoniale nel cui corso si dia luogo al riconoscimento diretto" (Cass., sez. 4, 27 maggio - 11 agosto 2004, Taulant, riv. n. 229086). La corte di assise d'appello ha fatto corretto uso di tali principi dando, caso per caso, specifica motivazione delle ragioni per cui i riconoscimenti delle persone offese devono ritenersi credibili. A fronte di ciò il ricorrente si limita a riprodurre testualmente i motivi di appello, incorrendo così in vizio di mancanza di specificità ai sensi dell'art. 581, lett. c del codice di rito, posto che "la mancanza di specificità del motivo deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato" (Cass., sez. 4, 29 marzo - 3 maggio 2000, Barone, riv. n. 216473).

3. Più complessi gli ulteriori motivi concernenti, sotto due distinti profili la personalità dell'imputato.
La prima censura è specifica e circoscritta: si contesta alla corte di merito di avere ritenuto che la capacità di intendere e di volere sia esclusa solo da cause patologiche (nella specie insussistenti) e non anche da disturbi della personalità di particolare rilievo (nella specie all'evidenza sussistenti). Il principio di diritto affermato dal ricorrente è esatto ma infondate sono le conseguenze che se ne traggono. Le sezioni unite di questa Corte, infatti, con sentenza 25 gennaio - 8 maggio 2005, Raso, facendo riferimento sia a ragioni sistematiche che al letterale disposto degli articoli 88 e 89 del codice penale, hanno chiarito, in termini del tutto condivisibili, che, "i disturbi della personalità, quand'anche non inquadrabili nelle figure tipiche della nosografia clinica. inscrivibili al più ristretto novero delle "malattie" mentali, possono costituire anch'esse infermità", anche transeunte, rilevante ai fini degli articoli 88 e 89 codice penale, ove determinino lo stesso risultato di pregiudicare totalmente o grandemente, le capacità intellettive e volitive". È, dunque, viziato da errata applicazione di legge - e va conseguentemente rettificato - il passaggio motivazionale della sentenza impugnata in cui si afferma che l'assenza di "una patologia cronica tanto grave da integrare uno stato permanente a causa della severità e della costanza della condizione di infermità" esclude i presupposti medico legali del vizio totale o parziale di mente. Ma la motivazione dei giudici di merito non si ferma qui: in essa, al contrario, si precisa, con ampiezza di motivazione, che, anche a voler assumere la "nozione estensiva" di incapacità di intendere e volere, non ne esistono nel caso specifico le evidenze, posto che pur in presenza, di significativi disturbi della personalità "l'autonomia funzionale dell'Io è apparsa integra, senza alterazioni significative delle sue funzioni costitutive", e ciò con riferimento sia ai profili cognitivi che a quelli organizzativi, previsionali, decisionali ed esecutivi. L'impostazione è del tutto coerente con il citato insegnamento delle sezioni unite, secondo cui il disturbo rilevante ai fini degli articoli 88 e 89 del codice penale "deve essere idoneo a determinare (e avere in effetti determinato) una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile (totalmente o in grave misura) che, incolpevolmente, rende l'agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti; di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente e liberamente auto determinarsi". È proprio questa situazione che la corte di merito ha ritenuto, nella specie, insussistente, con motivazione ampia e argomentata, in ordine alla quale nessuna specifica e argomentata censura (sotto il profilo della illogicità o contraddittorietà) è rinvenibile nel ricorso.
Con l'ultimo motivo il ricorrente si duole - come si è detto - del mancato riconoscimento del vincolo della continuazione, nonostante il nesso inscindibile tra serialità omicidiaria e unicità del disegno criminoso, riconosciuto dalla giurisprudenza in casi analoghi. Anche sotto questo profilo il ricorso non può trovare accoglimento. Ciò che la sentenza ha escluso è, infatti proprio il presupposto della doglianza e cioè il carattere "seriale" in senso tecnico della condotta dell'imputato ["Per quanto le donne aggredite si fossero venute a trovare in situazioni assolutamente analoghe, tuttavia il numero dei casi in cui il M. si è limitato a rapinare, a violentare e a infliggere a ferite anche gravi, è stato notevolmente superiore a quello in cui la sua azione è arrivata all'omicidio, attuato ogni volta con modalità che lasciano intendere una non premeditazione (...) e ciò, impedisce di ravvisare in concreto la contemporanea ideazione e la coesistenza nel tempo di due progetti criminosi diretti, l'uno, a commettere omicidi e, l'altro, a commettere solo rapine e violenze sessuali"]. Tale esclusione è logicamente corretta, seppur controvertibile, e ciò la rende non suscettibile di censura in sede di legittimità alla stregua della consolidata giurisprudenza secondo cui "in tema di controllo sulla motivazione, alla Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l'apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall'esterno; ed invero, avendo il legislatore attribuito rilievo esclusivamente al testo del provvedimento impugnato, che si presenta quale elaborato dell'intelletto costituente un sistema logico in sé compiuto ed autonomo, il sindacato di legittimità è limitato alla verifica, della coerenza strutturale della sentenza in sé e per sé considerata, necessariamente condotta alla stregua degli stessi parametri valutativi da cui essa è "geneticamente" informata, ancorché questi siano ipoteticamente sostituibili da altri" (così Cass., sez. un., 31 maggio - 23 giugno 2000, Jakani, riv. n. 216260)". Ciò posto, l'esclusione della continuazione è coerente con il costante orientamento giurisprudenziale che ritiene necessaria, per la sua sussistenza, la prova dell'originaria deliberazione, seppur generica, di tutti i fatti successivamente commessi.
Anche i motivi concernenti le caratteristiche di personalità dell'imputato e i loro effetti sulla capacità di intendere e di volere e sulla continuazione sono, dunque, infondati.
4. Alla stregua di quanto precede il ricorso deve essere respinto con seguito di spese.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali;
lo condanna inoltre alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili B. F., H. D. e V. G. A. che liquida in 3.000 euro per onorari più spese forfettarie come per legge quanto alla B., 2.399,62 euro (di cui 2.133 euro per onorari) quanto alla H., e 2.000 euro per onorari più spese forfettarie come per legge quanto al V..
Così deciso in Roma 8 giugno 2005
Depositata in cancelleria il 23 settembre 2005.

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